Bobby Soul

plays that funky music

Move out/articoli


Qui di seguito una raccolta di articoli scritti per il free press Move Out e per la rivista RollingStone.

Rolling Stone Magazine Luglio 2011

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ARCHIVIO ARTICOLI

FRED BUSCAGLIONE

MITO ITALIANO FRA IRONIA NOIR E SWING. A 50 ANNI DALLA SCOMPARSA

Fosse stata la pistola della “piccola così” o il fucile della Teresa di turno o magari la vendetta di qualche amante di Porfirio Villarosa a sancirne la fine, il mito di Fred Buscaglione avrebbe corrisposto alla perfezione all’immagine che l’amico e paroliere Leo Chiosso gli aveva cucito addosso. Il grande torinese se ne va comunque in maniera discretamente coreografica, schiantandosi con la sua Thunderbird rosa in un alba romana della dolce vita, dopo una generosa e lunghissima notte di musica. A quasi 50 anni dalla sua scomparsa, ci prepareremo così alle varie celebrazioni che ripercorreranno la carriera del timido studente modello di Conservatorio, che a quindici anni, figlio di genitori operai, già si guadagna la pagnotta suonando il contrabbasso nei night mentre coltiva, tra le maglie della censura fascista, la passione divorante per il jazz.  Buscaglione (insieme a Renato Carosone e a Natalino Otto, fra gli altri) è stato in primo luogo un artista che ha portato un’autentica rivoluzione nella musica italiana introducendo nel dopoguerra i temi della musica afro-americana. Ha inventato una miscela autoctona, originale e convincente. Doveva avere una scimmia per la musica davvero grossa sulle spalle, se è vero – come narrano le cronache – che ha sputato sangue in una gavetta durata quasi venti anni. Fino a quando decide di registrare in proprio le canzoni che gli erano sempre state rifiutate e con Che bambola! e Porfirio Villarosa, incide due 78 giri che segnano  il suo debutto discografico e in pochi mesi sbancano le classifiche. Diventa un incredibile caso, sfiorando il milione di copie vendute senza quasi nessuna promozione e suscitando le reazioni dei bacchettoni della melodia, che lui sfida arrampicandosi sui ritmi sincopati dello Swing «Non sembra un cantante, ma un attore che racconta storie. La musica leggera è un’altra cosa». Seguono Teresa non sparare, Eri piccola così, Guarda che luna, Whisky facile, rivisitazioni in chiave ironica del noir americano che rendono Buscaglione il fenomeno musicale dell’epoca, senza contare i film, le apparizioni in TV e le pubblicità che lo vedono protagonista. Un fenomeno durato giusto il tempo di assaporare il successo e la ribalta della cronaca scandalistica, con i presunti flirt che gli si attribuiscono con Anita Ekberg e Scilla Gabel ed il burrascoso matrimonio con la cantante eritrea Fatima, che termina poco prima della sua morte.

«Il musicista nomade dalla voce di carta vetrata», come è stato definito da Gianfranco Baldazzi , diventa così il mattatore assoluto dei principali locali notturni e un’icona dei giovani anticonformisti dell’epoca. Buscaglione precorre quasi senza rendersene conto il fenomeno dei primi urlatori e la ribellione successiva del cantautorato. Introduce l’elemento ritmico – che ancora adesso fatica ad affermarsi nella musica pop italiana – con un’impressionante swing nella vocalità. E lascia in eredità un grande mito che probabilmente poco rispondeva alla realtà della sua vera essenza di uomo ma soprattutto una musica e un approccio ad essa ironico e disincantato decisamente avanti per i suoi tempi.

Confessioni di un Wigger (dal sito di R.S. magazine)

Wiggers Beware! E’ la minaccia che appare sui siti di klanisti, miliziani e nazi americani. “State attenti, negri bianchi!”. Wigger – contrazione di white nigger – è chi appartiene a quella categoria umana per lo più statunitense ma poi anche europea, che si caratterizza per l’adorazione del Grande Bambù. Io sono uno di loro, un Wigger de noantri. Noi Wiggers, presenti sin dai tempi dell’abolizione della schiavitù negli Stati Uniti, siamo trascinati da una forza inesorabile verso il centro della terra. Attraversiamo il tempo fino agli albori dell’umanità alla ricerca del ritmo. Non lo possediamo, ma lo riconosciamo in un popolo che riteniamo superiore. I loro corpi, il modo in cui si muovono, la spontaneità e la naturalezza che li contraddistinguono, lungi dall’essere nostri attributi, scatenano in noi un irrefrenabile istinto emulativo, quasi ci riconoscessimo in una sorta d’etnia scomparsa. E’ Wigger ammirare a bocca aperta una copertina dell’incommensurabile Johnny Guitar Watson ritratto su un divano di pelle dall’iperbolica forma fallica accanto ad un barboncino nero con la pelliccia d’ermellino, ai piedi due donne seminude. Come lo è sfoggiare improbabili tenute da B-Boy pur avendo architetture fisiche chiaramente inadatte all’uopo ed essendo un po’ avanti con l’età. Un adolescente Wigger sarà probabilmente la perenne riserva della locale squadra di Basket, anche se magari è il più anziano. Wiggers di mezza età continuano a languire in sedicenti vite noir, malinconiche e jazzose mentre la variegata schiera dei Bluesmen porterà volentieri il peso del mondo sulle spalle ipnotizzata da quel giro di dodici. Molti musicisti sono Wiggers e – ahivoi! – io sono uno di loro. Ci distinguiamo dai veri neri per non essere mai stati in grado di scrivere un pezzo autenticamente porno. Un groove con il Grande Bambù dentro intendo, percepibile nell’avvolgente pulsare ipnotico e ripetitivo del basso di un qualunque brano Funk, lo stesso Grande Bambù che è pietra conficcata nella terra di Sardegna e in tante altre lande. Sì, è vero: noi veneriamo il Grande Bambù e riconosciamo che tutto è una metafora di Esso, ma il segreto – il vero segreto – è che pure il Grande Bambù in carne ed ossa è una metafora. I nazi-suprematisti questo non lo hanno mai capito. Ci danno la caccia. Ma noi resistiamo, anzi tendiamo ad espanderci.

Infine un auto-ammonimento per noi Wiggers: “Chi rusca prima o poi le busca”, come insegna Tigerwoods.

Donne FUNKY nel Business.

Si parla molto di donne e di come sono trattate nel nostro paese. Questo è uno spazio che Move Out mi chiede di riempire con questioni che riguardano la Black Music, così per riguardare al tema ho pensato di fare una breve riflessione sul ruolo di alcune cantanti e musiciste che si sono mosse nell’ipersessista mondo della Black Music. Non dico che BungaBunga sia un termine che potrebbe essere Funky. No. MAI. Magari Dance italiana anni ’80 da villaggio turistico e trenino, ma sempre alla danza quest’oscuro termine sembra richiamare. Pertanto, avendo esposto questo vertiginoso parallelo mi accingo a celebrare alcune donne che hanno dato un contributo fondamentale allo sviluppo e alla bellezza di questa musica afroamericana. Tutto sarà detto senza piaggeria nei confronti delle donne e senza i sensi di colpa maschili che ci sono richiesti dai comportamenti di alcuni anziani che a causa della loro impotenza sono costretti a pagare per avere amori multipli. Cominciamo dagli abusi fisici che ha subito Tina Turner dal suo compagno e capobanda Ike. Quest’uomo, dal grande talento musicale bisogna dire, essendo schiavo della cocaina ha reso praticamente schiava anche Tina Turner fra il 1970 e il 1976. Botte e litigi durante i concerti. Lei si esibiva a volte con chiari segni di violenza. Finalmente si divincola. Negli anni ’80 diventa una popstar e fa pure un film sulla vicenda in cui sputtana Ike. Brava Tina, grane per Ike che morirà dimenticato qualche anno dopo. Tina è bellissima tuttora, non sono certo io a scoprirlo. Resta però a mio avviso il fatto che le migliori cose musicalmente parlando sono proprio quelle fatte con Ike. Torrido R&B dall’energia incontenibile. Le storie turpi in questo caso hanno lasciato un racconto musicale di valore superiore a quello patinato del successo e del riscatto. Chaka Khan invece aveva un ottimo rapporto con la sua band interrazziale. La cantante era il vero e proprio leader di un gruppo che ammaestrava alla maniera di James Brown. La sua voce può tuttora (la sua carriera solista è proseguita senza grossi intoppi fra Jazz e Rythm&Blues) spaziare fra baritoni profondi e acuti che tagliano il cielo. Figlia di un’epoca d’amori più facili di adesso, Chaka ha stabilito la parità dei sessi senza dover soffrire più di tanto, forse perché si muoveva a San Francisco. Dove predomina una cultura omosessuale una maggiore libertà è garantita, ma ciò è stato soprattutto grazie al suo carattere solare e indipendente di donna senza molti bisogni ma di grande passione. Betty Davis era l’icona fetish del Funk. Pelle, tacchi a spillo, aggressività, testi ambigui. Una pre-Skin (Skunk Anansie) e l’ispiratrice della saffica bassista e cantante Me-Shell. Moglie di Miles Davis (uomo che si concedeva lunghe divagazioni) nei testi delle canzoni alternava momenti di rabbia (lo stesso accompagnamento sonoro schiumava asciutto) a momenti d’ammiccamento (Your Man My Man è una specie di manuale su come spartirsi un uomo). Dopo tre album d’assoluto livello ma scarse vendite si eclissa in un silenzio che la rende venerato soggetto di culto. Infine Mille Jackson. E’ la più simpatica e anche più grassoccia del gruppetto di simboli femminili del Funk che ho scelto io, in maniera del tutto arbitraria (ma sono innumerevoli le donne che hanno dato un contributo con il loro enorme talento e sensibilità). Mille Jackson la buttava sul ridere. I suoi concerti erano delle autentiche commedie in cui venivano messi in scena (e alla berlina) amori, sospiri, tradimenti e soprattutto il sesso, che nel suo linguaggio sboccato diventava un elemento smitizzato sul quale ballare e riderci su. Il tutto fatto però con una sopraffina misura musicale e una voce tonante gospel che non l’ha mai resa una macchietta ma una grande, grandissima e sottostimata artista che – trovandosi in un’altra epoca e spazio – sono sicuro avrebbe descritto degnamente in musica gli avvilenti odierni misfatti di casa nostra.

Espedienti (buffi) per vendere musica

Nell’epoca della fine delle case discografiche e dell’invasione planetaria di ogni sorta di prodotto da cameretta vince (a parità di valore) chi escogitail mezzo più divertente per diffonderlo?

Risale all’inizio del 2009 la più incredibile campagna di vendita di musica autoprodotta e originale di cui io sia venuto a conoscenza. Ma chissà cosa sono disposti a fare gli artisti alternativi dell’Uzbekistan di cui poco o niente sappiamo. Sto immaginando la sera in cui il batterista John Freese, padre di 4 figli, matto per le Volvo e autodefinitosi completamente fuori di melone, invita (lo suppongo io, mica lo so) a casa sua quattro dei migliori amici suoi ed essendo della Florida aggiungo che avrà probabilmente propinato minestra di gamberoni e qualche pannocchia abbrustolita, birra a fiumi? Chi può saperlo. Costui ha suonato con A perfect CircleDevo, Vandals e in passato anche con Nine Inch NailsGuns’n’rosesQueens of the stone age, Offspring e dozzine di altre band. Sarà pur degno di notevole rispetto, no? Per qualcuno paradossalmente no. Ripeto, si chiama John Freese ed è un idolo per molti. Sentite qui, quella sera fra una pannocchia e l’altra l’allegra congrega quali seguenti opzioni ha escogitato per vendere il CD (voglio dire, 4 figli bisogna vendere – ed io lo so): Per 7$ si scaricano le tracce, per 15$ arriva il cd, tutto normale. Per il 50$ il cd, la maglietta, e una telefonata di 5 minuti con Freese (evidentemente è convinto di essere un buon intrattenitore). Per 250$: cd, maglietta, bacchette della batteria autografate e un pranzo con Freese (wow!). Ma voi potete investire di più, fareste qualunque cosa per supportarlo e lui è disposto a lavarvi la macchina o farvi il bucato e, ciliegina, se sganci 500 vi tagliate i capelli a vicenda in un parcheggio (e qui le pannocchie giravano a ruota direi). Ma voi potete permettervi, e qui siamo alle migliaia di dollari, anche  una gita al museo delle cere, e 3 indumenti presi dal suo armadio (e tutta roba che sto leggendo dal sito Inchiostro, non sono certo andato a telefonare a John, anche perché non ho comprato il suo disco) Se siete narcisisti ossessivi e avete 5.000 dollari da investire Freese scrive una canzone su di voi e poi la smercia su iTunes (ma temo che gli introiti li prenda lui). Con 10.000 vi regala la sua Volvo Station Wagon (a patto che gli diate un passaggio a casa), questa mi sembra l’opzione migliore. Per 20.000$ Freese, Maynard Keenan dei ToolMark Mothersbaugh dei Devo vi portano al minigolf e poi vi abbandonano sull’autostrada e vi filmano per mettervi su YouTube (e qui siamo nell’immaginario collettivo giovanile di massa). Di ultima, per 75.000$, vi fate un po’ di giorni in tour con Freese, le canzoni scritte su di voi diventano cinque (un intero EP sulla vostra vita, essendo irrimediabilmente mitomani). Freese entrerà nella vostra band e ci resterà un mese; se non avete una band, per lo stesso periodo vi farà da assistente personale. Più un giro in limousine a Tijuana a fare cose rock’n’roll non meglio specificate e – il tocco di genio definitivo – una lezione di trapezio acrobatico con due dei Nine Inch Nails (amici suoi, Gastone Moschin e Adolfo Celi). Beh io letta questa cosa non riuscivo a smettere di ridere e, nonostante sia una faccenda di più di un anno fa ho pensato valesse la pena divulgarla. E – capzioso e tendenzioso come sempre – dirò che Freeze è assolutamente Funky. Ma ora! Un po’ di contributo originale! Ci viene in soccorso un amico con un suggerimento un po’ più a buon prezzo e di basso profilo per qualche musicista che come me cerca disperatamente di piazzare non dico tanto, ma tipo 500 copie nel mercato abruzzese: fare una catena di Sant’Antonio con scritto su una cosa come questa:”Amici buongiorno: Voi sapete che sono una persona seria e con i piedi per terra. “Vi invio questa lettera in quanto tale informazione mi è stata inviata da una stimata professionista e cara amica.  Decima Vittima hanno già realizzato un riuscito CD come “Contesti Scomodi” che si chiamava “Ometto” Adesso sta per uscire il nuovo lavoro “Storie Strane al Buio” Un album carico di ironia ma anche capace di emozionare. Quando invierete questo messaggio a 10 vostri amici ne trarrete un sicuro giovamento. Quando poi procederete all’acquisto dello stesso sentirete benessere psicofisico lungo tutto il corpo. Vi confesso che all’inizio ho dubitato poi mi hanno fatto ascoltare tutti i pezzi in anteprima e ho cambiato idea.” Non avendo Volvo da regalare…

GIL SCOTT HERON – CONCERTO A VIGEVANO

Vero ero sotto l’influenza anti-soul della mia buona amica rockettara. Vero c’erano zanzare che rombavano attorno e chissà perché a me non succhiano (ma rombavano in continuazione distraendomi). E mi distraeva la corte rinascimentale di Vigevano (la parola vigevano, un tempo vigevano, mi risuonava nella mente). E poi i suoni erano tutti sui medi e quindi non sono proprio i miei. Ma accidenti ero andato a vedere uno dei miei idoli. Il poeta. Quello che ti intrattiene. Quello che racconta le storie che piacciono a te, da Cincinnati ad Atlanta. Quei posti, quel blues. La classica vita spesa male. Un nero allampanato con la barba bianca. Un rivoluzionario. Anzi il “vero rivoluzionario”. L’ha scritto lui che la rivoluzione non sarà teletrasmessa. E’ la verità. Gil Scott Heron e  il Rhodes, per la prima volta dal vivo, lui e specialmente il Fender Rhodes. L’autore di “Lady Day & John Coltrane” e di “Home is where the hatred is”. Insomma uno di quelli grandi. Granderrimi. Sì, immaginavo fosse un po’ segnato. Dava l’impressione di avere avuto una vita difficile. Forse gli manca qualche dente. Oramai canta biascicando. Mi emoziona la prima volta al terzo pezzo. E’ “Winter in America”, ultimamente ne ho sentito una versione perfino da Mario Biondi. Solo lui e il Fender Rhodes. Lo dice all’inizio con umiltà civettuola. “Sapete io so suonare il piano”. Lo suona in maniera semplice e ipnotica. La voce è consumata. Al quarto pezzo fender e voce però penso: “Non ce la posso fare”. Ce la metto tutta a brandire di fronte alla barbara fermezza dell’amica di cui sopra la spada del Funk, la spada del Soul. Niente, sono distrutto, non mi prende. E domani come posso scrivere queste cose su un mio idolo. Arrivano gli altri musicisti. Vediamo se gli vengono in soccorso. Una pianista con tutta l’energia possibile in una notte di umido e zanzare a Vigevano. Dice Gil Scott Heron, fra un pezzo e l’altro, che si è narrato che lui a un certo punto sia scomparso. E si chiede: “Ma come è possibile scomparire? Se potessi scomparire lo farei, di tanto in tanto. Un marito scompare. Incontri una moglie e ti dice: mio marito è scomparso!. Ma un musicista non scompare, resta allo scuro. E io quando stavo allo scuro avevo lei.” E indica la pianista, bella donna peraltro.

Poi salgono gli altri musicisti. Gil dice fra un pezzo e l’altro (le sue presentazioni sono lunghe e accurate. Troppo per la mia amica rockettara.) che questi musicisti lo hanno accompagnato negli anni nelle sue svariate formazioni. Sorge il sospetto che Gil abbia detto al percussionista (non sento tutto questo groove), al sassofonista e al’armonicista che c’era da fare questo piccolo tour in Europa. Insomma andiamo ragazzi, dai! E loro abbiano pensato, massì per il buon vecchio Gil, sempre. E ci facciamo qualche soldo, no? Sceglie niente basso e niente batteria e si auto-penalizza. Escursiona nel Jazz ricordando al pubblico (tanto e celebrativo) che il Jazz è Dance Music (parole da scolpire nella volta dei cieli!). Ecco quando mi commuove: “Pieces of a man”, i pezzi di un uomo. La sua canzone che vede gli amici e se stesso andare in pezzi. Sì perché anche lui va in pezzi. Al bis con gente in piedi e festante dice “Celebrate!” ma canta The Bottle. Anthem dell’Acid Jazz londinese. Qui la si conosce grazie alle compilation del DJ inglese Gilles (nomi simili, insomma entrambi Gilberti) Peterson e alle notti a Camden Town (per quelli che hanno avuto la fortuna di muovere le chiappe da quelle parti era un must, un “devi”, “fondamentale”.) Un must è la bottiglia. Celebriamo la bottiglia, The Bottle. Mi chiedo se la gente che celebra sa di che parla la canzone che celebra. Se sanno che parla di ragazzi che hanno padri chiudi nella bottiglia, di madri che hanno solitudini chiuse nella bottiglia. L’ultima strofa, quella in cui tutti urlano “Celebrate” ma io capisco come: “C’est la vie!” dice letteralmente: “Se vedi qualcuno seduto nell’angolo chiuso nella bottiglia, probabilmente sono io.”. Quindi non c’è moralismo. Io ti amo lo stesso Gil, anche se il tuo concerto non è stato all’altezza di quello che sei, ti amo lo stesso perché tu hai scritto:

“Le parole di quattro lettere o quelle di quattro sillabe non ti faranno diventare un poeta, mostreranno solo quanto sei superficiale e tutti lo capiranno.”

Amica rockettara, amico metallaro! Capiamoci!!

 

Isaac hayes

(pubblicato su Rollingstone Magazine, maggio 2009)

L’aldiqua è un po’ meno funky. Ancora un po’ meno. Ecco un altro grande, Ike, che se ne va consegnando al Signore degli Scientisti il suo corpone integro e muscoloso. Sì, perché nonostante l’infanzia tipica da ghetto suburbano del sud degli States, Ike non dava l’impressione di essere tormentato come Marvin Gaye, ispirato religiosamente come Curtis Mayfield o violento come James Brown. Se ne sono andati tutti e il mondo non è più funky, ahimè. Oggigiorno resistono solo George Clinton – salvo forse solo grazie al suo surreale senso dell’ironia e ad una buona dose di paraculaggine – il fantasma di Gil Scott Heron e l’ologramma di Sly. Tutti gli altri stecchiti, compreso Barry che è stato accostato ad Ike per via del tono baritono anche se io non sono troppo d’accordo, ma che importa di me! White era un crooner di maniera, un uomo da seta e lustrini, non neghiamolo. Ike invece, sotto il sorrisone compiaciuto di chi sa che può prendere tranquillamente tutto il suo tempo e avere – immancabilmente – quello che vuole, sfoggiava cose più rudi, oltraggiose, poliziesche. Ike sapeva sollevare la zampata giusta al momento giusto. C’è da giurare che fosse sincero Ike. Come nella vita, così nella musica le sue – riconosciamolo – estenuanti cavalcate sonore si prendevano languidamente e lascivamente tutto il tempo necessario, in una sorta di ripetitiva ossessività, una trance sonora peraltro mai compromessa da banalizzazioni pop. Il suono quindi sempre scuro, greve, incombente era perennemente sudato di un sudore sano, perlato, ovviamente iper-erotico. Ecco Ike suppongo sapesse bene come canalizzare la sua energia, mettendola prodigiosamente a  disposizione della sua musica e delle sue donne. Voglio immaginarmi Ike filosofo (anzi teologo) di una vertiginosa trasmutazione dei valori. Voglio immaginarmelo sentenziare che “se proprio non riesci a contenere tutte le donne in una donna sola, allora vorrà dire che avrai una donna in tutte”. L’ho messo fra virgolette ma l’ho inventato io, ora, ispirato da Ike. Egli poteva avere due donne alla volta – amandole e scegliendole entrambe – se si vuole credere ad un suo brano “Menage a Trois (Moonlight Loving)”, una cosa – credetemi – intesa in maniera hippy, non da maschio alfa dominante, si era negli anni ’70 d’altronde. Perchè poi c’è l’Ike etico, l’Ike che riesce ad essere etico ed estetico, fantasmagoricamente vestito eppure credibile quando risolve e supera l’AutAut che tanto affligge la nostra società bianca, anglosassone e cristiana. Ike è etico-estetico quando dice di Shaft (suo alter-ego super saiyan): “Chi è l’uomo che rischia il collo per salvare il suo fratello-uomo?”. Ed è un Ike anche toccante quando giustifica e salva lo stesso Shaft così: “E’ un uomo complicato, ma nessuno lo capisce come la sua donna”.  Vero che Ike nel suo più grande successo fa pure cenno ad un simpatico ed irresistibile (a quanto pare) Black Dick, ma questo non significa sessismo e disprezzo per il genere femminile stile Gangsta Rap, questi figli degenerati che hanno venduto l’anima al dio denaro delle multinazionali dell’industria discografica (tanto per dire una cosa tanto alternativa quanto approssimativa). Tutt’altro – piuttosto Esso va concepito come un dono. Il più involontariamente comico dono di Dio alle donne che si possa concepire. Perchè devi farle ridere le donne, e qui si chiude il cerchio. E dare loro brividi. Soul e Funk hanno sempre puntato alle emozioni, non al potere, sono sempre stati molto gentili, in fondo. Sprecati ed abusati ma sempre necessari gli “I Want You”, “I Need You” e ”I long for you”. Perchè la donna è un fiore da portare in palmo di mano, da proteggere, da rispettare con riconoscenza e gratitudine. Ike la pensava così, sono sicuro. Bene, allora quarantacinquenni di Voghera e Campobasso che comprate il Rolling Stone, anziché far uso ed abuso di medicinali e – quel che peggio – cocaina, per una volta spendete i vostri soldi acquistando per esempio “Hot Buttered Soul”. Intanto stupireste la vostra amante con una scelta inconsueta e raffinata. Poi vestitevi come lui. Insomma rasatevi, mettetevi i Rayban, un medaglione, un gilet e tutti nudi sotto. Fatelo con ironia ovviamente, certo restate pur sempre gente di sinistra. Poi prendetevi il vostro tempo. Dovete dare l’impressione – come Ike – di essere sicuri di potere controllare la situazione in qualunque momento. Non siate precipitosi e sintetici come un brano dei Residents e non cercate di fare i maledetti alla Iggy Pop, tanto non siete credibili. Siate prolissi, buttatela sul profondo, lento, rotondo ed estenuante giro di basso che introduce per 8 (dico OTTO) minuti la strofa di “I can’t stop my self from loving you”. Ah, compratevi pure un Tapis Roulant così vi tenete in forma, anzi no, meglio di no.

In tempi di crisi c’è ancora più bisogno di groove

Qualche espediente per continuare impunemente una vita da festa

E’ venerdì 25 di un qualunque mese del G.E.P.D (Grande era della paura e della depressione). Non è ancora arrivato lo stipendio o il bonifico o il regalino dell’amante o la pensione del nonno o qualunque altra sia la vostra forma di sostentamento. Fatto sta che questa forma di sostentamento tende a diminuire con una rapidità che fa finalmente sospettare anche a voi (a noi?), languidi viveur e fanciulle danzanti, che forse un pochino di crisi è arrivata, nevvero. Così vi ritrovate con 10 euro in tasca, un venerdì da affrontare ma nessuna voglia di mollare il colpo o trascorrere la serata a chattare su facebook in simultanea con altri attempati decaduti della notte. La prima cosa che vi ricordate è che i vicini di casa, appassionati di Blue Grass, stanno facendo una grigliata in giardino. Correte quindi su Wilkipedia, vi informate, e muniti del vostro sorriso più lumacoso irrompete sulla scena canticchiando un brano dei Foggy Mountain Boys. L’inevitabile risultato sarà un piatto di plastica bianco con una seppur esigua bistecca che però vi sostenterà al meno per le successive tre ore. Per declinare l’invito alle danze e accomiatarvi velocemente funzionerà la solita scusa che usate per conquistare gli amori vegani, che ultimamente vanno per la maggiore. Scusate ma quando mangio carne ho bisogno di riflessione, di purificazione e di disciplina. Invece, di corsa in centro ad inquinare, con quel po’ di riserva che vi rimane nel serbatoio. L’ora è quella dell’aperitivo. Seduti al tavolino potrete a lungo disquisire con i conoscenti dell’ultima ora.. Magari li estenuate con gli affari vostri. Poi esacerbate i toni e li costringete alla polemica. Alla fine vorranno farsi perdonare offrendovi la prima vodka tonic della serata.  A questo punto si entra nel vivo della serata. Di questi tempi ci sono musicisti, che farebbero qualunque – dico qualunque – cosa pur di suonare, e suonano gratuitamente in almeno 4-5 locali. Libero ingresso quindi. Le varie tessere le avevate già scroccate in passato. Il primo posticino che affrontate è scuro scuro, ci sono forse 15 persone e un gruppo Hard Core Noise. Non è quella che si potrebbe definire un’atmosfera allegra. Ma vi fate coinvolgere. Scuotete la testa in un impeto rock and roll. Fate le corna metal, in maniera un po’ imprecisa e anche fuori luogo per la verità. Però vi piove ugualmente dal cielo un bicchiere e qualche sigaretta. Poi, con passo felpato, sgattaiolate fuori verso le luci soffuse e l’ostentata eleganza del locale jazz. Tutto in pietra, bellissimo. State già un po’ biascicando, qui non è che state andando proprio alla grande ma quando tutto sembra essere perduto, quello che vi avrebbe potuto condannare (una tirata contro la fusion) attira le simpatie di un astante ancorato al jazz di New Orleans. Bicchiere numero 3. Galvanizzato fate un salto nel centro sociale, impegnato, snob ed universitario. Suonano musiche con i giocattolini e proiettano video in bianco e nero. Atmosfera immobile e sospesa. Per non sapere né leggere né scrivere parlate di Nietzsche, l’unica cosa un tantino elevata che avete letto. L’organizzatore vi guarda con condiscendenza. Qui, un po’ di chill out. Nessun bicchiere. Assorbite cultura, ma di quella vera, ne farete tesoro più tardi. Si fanno le due, ma voi avete una marcia in più. C’è il localaccio blues. Sapete bene che in un posto così potete vivere di prepotenza. specialmente a quell’ora. Piovono bicchieri da tutte le parti. Ma voi fate i raffinati, rifiutate cortesemente. Addirittura dite che avete smesso di bere, per impressionare la tipa straight edge che chissà come mai è da quelle parti. Ah, è la ragazza del bassista, ma pensa te! Bene, siete proprio in forma. Baciate tutti, maschi e femmine. Con alcune limonate persino. E giù al posto dance, per chiudere alla grande. Si chiama “Fascion 2000”, carino. Vi rassettate. E vi recate subito dal DJ. Ebbene sì, perché no? Gli dite che avete consumato la sua ultima compilation, vi lanciate in un ballo sfrenato e ad ogni pezzo che suona gli lanciate occhiate estatiche e gridolini. I bicchieri si moltiplicano a dismisura. Vi cadono soldi nelle tasche. Tutti vi amano. Vi considerano stupendo. Avranno mica preso qualche pasticca? No, mica per quello. Vogliono stare vicino a voi. vi amano, perché avete groove, merce rara. Fidatevi, il groove porta culo. E l’indomani pure il pranzo, con i 10 euri che avete risparmiato.

INTERVISTA A RICKEY VINCENT

 

D. Professor Vincent, il suo libro Funk è una specie di bibbia per tutti coloro che amano la musica nera. E’ largamente conosciuto e spesso citato anche dai nostri ascoltatori e amici di Funk-in-Italia.
A distanza di 10 e più anni sente che la percezione generale del Funk ha ottenuto la risonanza culturale che merita o è ancora un fenomeno underground?

R.V. Il Funk è una cosa meravigliosa perché è dappertutto, ma è allo stesso tempo molto speciale nell’Underground per tutta la gente che lo conosce e che lo ama.
Sono molto felice che il Funk si è diffuso in tutto il mondo e la gente ama fare nuova musica, e nuovo Funk e riscoprono quanto Funk è stato fatto in molti posti del mondo sin dagli anni 60 e 70
La cosa esiste da un sacco di tempo ma ora la gente sta scoprendo che questo suono, queste jam, questo groove è parte di qualcosa, è parte di un movimento mondiale che ti fa sentire vivo, ti dà cultura, ti fa stare bene, ti fa sentire “Funky”

D. Ho la sensazione che fra i ragazzi europei la musica Funk non sia diventata popolare come l’HipHop o il Reggae perché apparentemente non contiene rabbia o istanze rivoluzionarie ed è molto più incentrato sulla libertà d’espressione e la spontaneità. Ma ci deve essere una sorta di malinteso se si pensa al lavoro di gente come Gil Scott Heron o i Last Poets. Lei sta per pubblicare un libro sulla storia delle Pantere Nere, ci può parlare di questo?

R.V. E’ interessante che dici che la gente segue il Reggae e altre forme di musiche che hanno un forte impegno sociale, perché la stessa musica Reggae è stata fortemente influenzata dalla musica black americana negli anni ’60 e James Brown è stata un’ispirazione per Bob Marley (per esempio
Marley parla di James Brown in diverse interviste), perché ascoltavano il Rythm&Blues americano che veniva da Miami e da New Orleans attraverso la radio.
Allo stesso modo se si pensa al movimento per i diritti civili di Martin Luther King e Malcom X, esso ha influenzato i movimenti politici di tutto il mondo e anche la musica, la musica nera, ha influenzato movimenti artistici in tutto il mondo. Così il Funk ha giocato un ruolo molto importante in molte musiche “conscious” che sentiamo oggi, anche se noi oggi le pensiamo come HipHop o Reggae. L’HipHop sostanzialmente è costruito su spezzoni di Funk campionato e posso dire che il Reggae è largamente influenzato da Soul e R&B, il Soul consapevole degli anni ’60, perciò il Funk sta proprio li’ all’inizio. Quindi quello che succede è che la gente ama la buona energia, il groove e il beat ma non c’è solo questo. Quando cominci a guardare più attentamente, comprendi il suono profondo e un movimento molto importante, una rivoluzione che accadde nei tardi anni ’60, fra i neri, fra tutti, un’intera generazione stava quasi rivoltando un sistema, ma la musica, la musica di strada che usciva fuori era questo poderoso e fortemente ritmico Funk, una parte del Funk desciveva e musicava le avversità, ma un’altra parte era li’ per portarti oltre le avversità in una dimensione più elevata. Ed ecco perché James Brown è importante: lui si è confrontato con le avversità e ci ha fatto ballare attraverso di esse e poi arrivò Sly Stone e disse io ti posso portare sopra tutte le avversità. Percio’ in James Brown, Sly Stone e molti altri c’era una rivoluzione nella musica che la gente sentiva, sentiva ogni giorno e ballava erano la colonna sonora degli scontri che avevano luogo in quegli anni, quindi il Funk è strettamente connesso ai cambiamenti e ai movimenti sociali ma questa storia non è stata raccontata. I ragazzi ascoltano HipHop ma se studi HipHop devi studiare Afrika Bambaata e GrandMaster Flash e gli altri e ti diranno tutti che essi suonavano Funk, suonavano James Brown quando erano deejays.

D. La cultura HipHop è largamente identificata con lo stile di vita Gangsta, sesso, soldi e violenza. Successo ad ogni costo. Viene venduta e marketizzata sotto questa luce e l’industria favorisce questa chiave di lettura. E’ molto criticata ma altrettanto popolare, un po’ come accadeva 30 anni fa con il fenomeno della Disco Music considerata edonista. Pensa che in futuro la musica Hip Hop verrà vista sotto un’altra luce, intendo che testi che oggi vengono considerati inaccettabili siano visti come metafore dalla doppia lettura?

R.V. Quando parli della rabbia che è nel Gangsta Rap, anche quando si tratta di fantasie anche se gli scontri a fuoco con la polizia di cui parlano sono soltanto immaginari, la rabbia che sentono è vera. Riguardo ai  Rap sulla violenza e sugli abusi alle donne la cosa è un po’ diversa perché nascono dalla frustrazione di vedere che stai perdendo il tuo potere, sei disoccupato, non hai nessun possibilità, così fantastichi di avere potere sulla polizia e sulle donne e tutte queste cose. Queste sono buone ragioni perché almeno parte della musica Rap che si sente in giro sia davvero arrabbiata, ma – hai ragione – il marketing della musica leva molti dei veri valori che sono inerenti all’Hip Hop. Se andiamo indietro – per dire – a James Brown, James Brown diceva di essere una macchina del sesso, questo è il massimo della provocazione che ha raggiunto, ma nello stesso disco potevi sentire canzoni “uplifting” sulla comunità, egli rappresentava in musica la totalità delle istanze della comunità nera e il Funk è la matrice di tutto, è la matrice dell’energia positiva ed è la matrice originaria della ribellione, della rabbia certo ma anche dell’unione, del mettere tutti insieme.
Certo è vero, il marketing musicale ha enfatizzato la violenza e gli aspetti negativi, per vendere di più, e ha portato il movimento fuori strada. Ma detto questo, vivendo in un mondo dove sempre più gente sente che non c’è una società a cui appartenere, persone che sentono di non essere realmente interconnesse, è normale che la musica oggi rifletta questo, rispecchi quel “non me ne importa niente” perché cosa ha questo mondo per me? Tutto quello che ho è questo Beat ma vedi, io dico, il Funk è la cosa che fa vivere questo Beat, che lo rende salutare, lo rende positivo per te. Tu puoi ballare la tua rabbia, e una volta che l’hai fatto, che fai? Dopo hai bisogno di amore, hai bisogno di costruire qualcosa nella vita che hai e il Funk ha tutta quella vita in sé. L’HipHop non essendo suonato si priva di molta della vita e del respiro dei Beat, mentre il Funk ti porta giù fino in fondo, come sai, così in basso che non puoi andare più sotto.

 

D.: Pensa che il Funk o la cosiddetta musica Nu-Funk sia qualcosa di vivo oggi? Ci sono artisti, movimenti negli USA e nel mondo capaci in questi giorni di fare musica innovativa e creativa allo stesso livello dei maestri del passato? E quale tipo di consapevolezza portano questi nuovi artisti?
R.V: Penso ci sia un sacco di roba oggi, un sacco di roba buona. La maggior parte riguarda scene locali. Puoi andare a Buenos Aires o a Dallas nel Texas, puoi andare in una città del Mediterraneo e puoi trovare Funk-Bands, gente che canta Soul, gente che suona i fiati, ritmi Funk, che fa feste e celebrazioni. E i musicisti stanno bene, l’audience si diverte e le band sono creative, vivendo, respirando vita, affermando musica. Ma poi quando portano il loro Funk alle etichette discografiche, dicono, bah questo non suona Hip Hop, Reggae o Rock’n’Roll percio’ ci sono poche possibilità di commerciare il prodotto, è diventato un altro degli stili musicali della World Music e pertanto resta Underground, benché sia il sangue pulsante di tutti questi altri stili. E questa se ci pensi è sempre stata la storia del Funk, anche ai tempi di James Brown e Bootsy Collins quella roba non veniva venduta come Funk, si chiamava Soul. In america dicono che la Black music è Hip Hop o R&B, e fanno una sorta di distinzione dicendo che R&B è più morbido e HipHop più duro. Negli anni ’60 e ’70 Soul era più morbido e Funk più duro, ma non dicevano Soul e Funk, dicevano solo Soul e Funk era underground anche ai quei tempi. Anche nei giorni gloriosi di George Clinton e Funkadelic quando la Mothership stava sbarcando sulla terra, nel 1977, l’industria non era interessata, pensavano alla Disco, a Donna Summer, ai Bee Gees, quella roba. Anche quando il P-Funk era primo in classifica, le Major non cercavano di parlare di Funk e la cosa veniva definita Disco, ma il P-Funk è rivoluzione! Pensavano che la gente non fosse preparata ma il P-Funk ha molti livelli. Brani come Flashlights, One Nation Under a Groove, Tear the Roof Off the Sucker, Aquaboogie, non hai bisogno di capirli, hai solo bisogno di ascoltarli ad alto volume e il tuo corpo comincia a muoversi. Ma Maggot Brain, Free your Mind and your Ass will Follow e Cosmic Slop sono molto più provocatori, parlavano di Armageddon, parole che facevano pensare e che ti portavano alla sorgente nuda della vita. Tu puoi dire che questo è un gusto che acquisisci in seguito, ma io sono cresciuto ascoltando quelle Party songs con quei testi e anche se tutto quello che volevo era far festa dopo mi sono accorto che questa musica conteneva molto di più e questa è una cosa straordinaria. Che tu abbia artisti e uno stile musicale che è molto più di quello che percepisci al momento. C’è molto di più. E riguardo ai Rap Beats? Quanti Rap Beats puoi fare? Sono già stati fatti tutti! Certo puoi mettere delle nuove rime su queste basi ma la forma non ti dà molto spazio per lavorarci sopra, mentre col Funk puoi andare dappertutto, puoi andare nel Jazz, puoi andare nel Latin, nel Rock, nell’Afro, nella Techno e nell’Elettronica ed essere sempre sull’”uno” e avere ancora Funk, le grandi Funk band hanno attraversato tutti questi generi. Dai Kraftwerk, dagli Earth Wind & Fire ai Mandrill, ci sono band che sono state la base per molti stili di musica attuali e che già allora praticavano la contaminazione fra generi.

D. Dai tempi di Elvis Presley e prima, è abbastanza chiaro che molti ragazzi bianchi hanno interpretato idee che venivano dal patrimonio culturale nero. Penso che sia tempo di insegnare ai ragazzi di oggi che molta della musica che considerano Rock (e quindi più che altro Anglosassone) degli ultimi 50 anni sia stata creata originariamente da musicisti Afro-Americani. Dovremmo dire loro che il Rock’n’Roll in origine era solo un tipo di musica nera. Ora se mi permette una domanda personale. Io sono un bianco, io stesso un musicista. Non so quante volte ho cantato canzoni di James Brown o di Sly and the Family Stone e la maggior parte della mia produzione personale è largamente influenzata dalla musica Afro-Americana. E sono sicuro di essere soltanto uno di un nutrito gruppo di musicisti bianchi. Come uomo nero, come si sente riguardo a questo?

R.V. Come mi sento riguardo gente bianca che sente la musica, che ama la musica, che suona la musica nera? Non ho nessun problema con questo. Vedi io vengo dalla Bay Area e la miglior band che la Bay Area ha mai prodotto è stata Sly and the Family Stone, che era una band di “uguali”, una band di bianchi e neri, uomini e donne, tutti erano uguali, tutti erano degli individui. Era una band in cui indossavano tutti lo stesso costume, che dava un senso di compattezza ma sentivi anche il contributo individuale di ognuno. E quando parli dei cambiamenti sociali e di quelle cose su cui sto lavorando nel mio libro sulle Pantere Nere, ti posso dire che il Partito delle Pantere Nere non aveva nessun problema ad avere gente bianca a supportarli.
Ovviamente si occupavano della loro comunità, della gente nera e delle ingiustizie che dovevano affrontare, dovendo sopportare la brutalità della polizia, i bianchi non soffrivano della brutalità della polizia, i neri sì. Quindi avevano ragioni per essere uno specifico gruppo nero, ma se studi le Pantere Nere avevano molti alleati e sostenitori bianchi e non consideravano sbagliato che la gente non nera li aiutasse. Ciò si riflette nella Bay Area, perché c’erano musicisti di Rythm&Blues, Jazz, Latin, Rock’n’roll di tutte le razze e la questione nella musica, in America, nella musica Americana in genere, la sola questione è “Puoi suonare un groove?” “Il tuo sound è buono?”
Anche gente come Miles Davis che era ben noto per essere furioso per lo sfruttamento della cultura nera, lavorò molto bene con arrangiatori, produttori e musicisti bianchi, perché suonavano bene per lui. E percio’ quando si tratta di suonare, pochissime persone hanno un reale problema a condividere l’esperienza della musica. Ma in termini di “chi ottiene un contratto discografico” , chi prende le royalties, chi continua ad essere pagato, chi è ricco ora, questo è un vero problema.
E se pensi ai gruppi interraziali che uscirono nell’età d’oro del Funk, anche band come Sly and the Family Stone, Tower of Power, Herbie Hancock, Headhunters o Mandrill e Rufus & Chaka Khan e artisti come loro, erano band grandemente motivate per tutte le ragioni giuste. Ma ora, 30 anni dopo, se tu guardi le statistiche economiche, la maggior parte dei bianchi in quelle band sono finanziariamente stabili mentre la maggior parte dei neri continua a sbattersi per cercare di farsi pagare. Per qualsivoglia ragione, alcuni (soprattutto bianchi) sono stati capaci di prendere il loro successo e trasformarlo in stabilità economica, altri (soprattutto neri) no. Ci sono molte ragioni per questo ma è un problema serio perché musicalmente lo spirito e l’anima e la comprensione del groove e dell’”uno” è lo stesso per tutti e così dovrebbe essere il dividersi i ricavi economici.

D. Professor Vincent, sono molto onorato di averla avuta qui e voglio ringraziarla per avere speso il suo tempo per noi. Le saremmo molto grati se potesse lasciare un messaggio personale per Funk-in-Italia

R.V. Mi piacerebbe dire, prima di tutto, grazie per il vostro amore per il Funk e il vostro amore per l’”uno”, e la ricerca del Funk e la ricerca del Groove è una delle cose più sane che potete fare, percio’ in ogni caso state ispirati, state sull’”uno” e continuate a fare quello che fate

SYLVESTER ERA GAY

Vita e miracoli della nera stella della Disco Music

Qualche nota su un’icona della Disco Music il cui profilo non è ancora sufficientemente conosciuto qui in Italia. Autentica superstar americana e figlio degenere della prima borghesia nera, Sylvester è rimasto fieramente gay fino alla sua prematura scomparsa agli inizi degli anni ’80, al contrario di Luca. Si faceva chiamare Regina a gran dispetto degli odiatori della Disco Music e degli omofobi che erano, spesso, lo stesso gruppo di persone. La caccia alle streghe e il disprezzo per un genere musicale considerato disimpegnato, edonista e sfrontatamente promiscuo (anche in senso razziale in quanto per la prima volta bianchi e neri erano allo stesso modo protagonisti di un’unica scena) era addirittura culminato in autentici roghi di vinili Disco organizzati – udite udite – dai deejays delle radio rock imbufaliti dalla deriva che stavano prendendo le cose in quell’epoca, quando anche rockstars come Rod Stewart e i Kiss avevano indugiato “colpevolmente” alla contaminazione con la tanto esecrata musica da discoteca. Per fortuna oggi anche i rockettari più integralisti ballano allegramente i brani di quel mondo, compresa la celeberrima “You make me feel mighty real”. Nella reprise inclusa nell’album più riuscito di Sylvester, “Step two”, le Two Tons of Fun, duo giovialmente soprappeso che forniva i background vocals alle performance dal vivo e in studio del nostro, si sdilinguano in un gospel che sospende il giudizio e confonde il gioco sull’oggetto di tanta estasi. Quello ”You” che fa sentire realmente potenti è, come sempre nella Black Music, l’amore sacro e quello profano, simultaneamente. Amore profano che sulle strade di San Francisco Sylvester ha praticato con coerenza pagandone poi il prezzo con la malattia innominabile che l’ha stroncato nei primi anni ’80, non prima di avere aperto la strada ad un genere, l’HiNrg praticato – sorprendentemente con una certa perizia – anche dai produttori di dance italiani, anni più tardi. I Dee Jays suonano ancora adesso la sua “Do You Wanna Funk”, perfetto connubio fra voce soul ed energia della prima dance elettronica che si deve a quel geniaccio di Patrick Cowley, bianco come un formaggino. Ma pure la cultura più “alta” si è accorta per tempo, anche se estemporaneamente, del suo talento. Il celebrato jazzista Herbie Hancock lo ha voluto come vocalist in uno dei pezzi meglio riusciti del suo periodo Electro Funk, “Magic Number”. Qui la voce di Sylvester è meno riconoscibile, dato che non indulge come fa di solito nel tipico e vertiginoso falsetto, ma rivela invece anche una capacità di sorprendere ed emozionare con le note più gravi. Infine la chicca delle chicche, l’apparizione nel film “The Rose” con Bette Midler dove interpreta con esilarante eleganza una Diana Ross decisamente sopra le righe.

SLY IL RIVOLUZIONARIO

Sly: una vita per il Funk (e per l’autodistruzione)

 

Breve storia di un artista rivoluzionario che ha cambiato il corso della musica.

Doveva davvero essere una indescrivibile testa di cazzo ai tempi buoni Sylvester Stewart se il suo bassista Larry Graham (beh, uno dei più grandi bassisti della storia della musica, non bruscolini) a un certo punto ha dovuto commissionare un killer per ucciderlo, fortuna che non c’è riuscito, per il bene di entrambi e degli amanti della musica. Siamo nel 1972, il miracolo interetnico e multi genere (maschi e femmine, bianchi e neri, sullo stesso palco, nella stessa band, per la prima volta insieme) di Sly and the Family Stone vive alterne fortune, grandi successi commerciali, musica strepitosa, ma anche abusi di droga come mai prima, concerti bucati, litigi fra i membri della band. L’anno prima era uscito “There’s a riot going on”, che seguiva la fortunata apparizione mattutina nella palude gremita di Woodstock dell’anno precedente. Stiamo parlando di un gruppo che nasce nel 1967 e che a distanza di pochi anni diventa il fenomeno musicale più interessante dell’epoca. La commistione di generi – una solida base funk unita alle esperienze più intriganti del rock psichedelico – era la sua cifra stilistica. Dicevo degli inizi nella seconda metà degli anni ’60 proprio nella Bay Area di San Francisco. Quindi pace e amore (amore a gogo), testi familiari, facili, integrazione, follia, creatività e quant’altro si ricordi di quella fortunata stagione. Sly proveniva da una famiglia del ceto medio di Dallas, ancora una volta classicamente connotata dalla forte religiosità propria degli afro-americani. Con tre dei suoi cinque fratelli e sorelle fonda vari gruppi fino alla sigla definitiva di Sly and the Family Stone, che comprende suo fratello Freddy alla chitarra e successivamente la sorella Rose che suonerà la batteria. Oltre al già citato Larry Graham al basso, ci sono Greg Errico e Jerry Martini, i cognomi tradiscono le origini, a rappresentare la parte caucasica del gruppo. E pure il manager è bianco. Ovviamente le Pantere Nere non perdono l’occasione di intimare a Sly di cambiare i membri bianchi della band. Sly dapprima resiste poi trascinato dal vortice della cocaina comincia a sbarellare e non tanto per le pressioni delle pantere, quanto per i suoi smisurati problemi di ego e una gestione del tutto folle delle finanze, sono gli stessi membri della band ad abbandonarlo progressivamente. Ma è proprio nel momento in cui perde praticamente tutti i componenti  che Sly riesce a registrare (sovrapponendo da solo molte tracce) quello che è considerato uno degli album più importanti della storia del Blues: “Fresh” – 1973 – è un autentico capolavoro che contiene brani simbolo come “If you want me to stay”, reso noto anche in Italia dalla cover dei Red Hot Chili Peppers. o come “In Time”, il cui riff di chitarra sarà poi campionato 15 anni più tardi dai Delasoul nella loro hit hip-hop “Say no Go”. O come la strepitosa versione della sciaccquatissima canzone di Doris Day “Que Sera Mi Vida”, che nell’incisione di Sly, cantata dalla sorella Rose, diventa uno spiritual profondo e scuro da pelo che ti si rizza sulle braccia. Già da alcuni anni il suono e le tematiche della band avevano virato verso colori più densi e consoni alle difficoltà della prima metà degli anni ’70 (guerra del Vietnam, crisi economica). L’ultimo grande album di Sly and the Stone è del ’74 e si chiama Small Talk. Nel 1975 lo scioglimento definitivo della band dopo un concerto fallimentare al Radio City Music Hall. Inframezzata dalla pubblicazione di qualche sporadico e mediocre album solista comincia la discesa agli inferi di Sylvester Stewart che culminerà con un periodo di detenzione a causa del consumo spasmodico di droga. Recentemente il carrozzone della famiglia Stone si è rimessa in circolazione nel mondo dei Festival Blues. Sly, con una platinata chioma moicana, appare sul palco per pochi minuti e riesce a malapena a cantare un paio di pezzi. Non una cosa particolarmente allegra per un musicista che ha letteralmente inventato un genere, il primo e più convincente cross-over fra Funk. Rock Psichedelico e Blues.

TEDDY PENDERGRASS

Ci sono band che si fanno notare per l’energia, altre per il groove, altre per i testi delle canzoni e poi ci sono nomi a volte impronunciabili che si ricordano invece per la voce inconfondibile del cantante. E’ il caso di Herold Melvin & The Blue Notes, combo di Philadelphia attivo negli anni ’70 e caratteristico dell’allora preminente Philadelphia Sound ideato dalla coppia Gamble & Huff. La voce in questione, potente, appassionata, sexy era quella di Teddy Pendergrass, scomparso a 59 anni nei primi giorni di quest’anno. Il grande pubblico conosce la ballata dei Simply Red “If you don’t know me by now”, ma la versione originale del 1975 è interpretata con classe ineguagliabile da Teddy l’Orsetto, così era soprannominato. A seguito di alcune divergenze con Herold Melvin, TP lascia la band e prosegue una carriera solista che gli vale 20 dischi d’oro e 5 nominations ai Grammy per la musica. Brani come “Close the door” e “Love T.K.O.” lo collocano come uno dei massimi interpreti mondiali del Satin Soul, musica afro-americana lenta ed estremamente seduttiva. Ma, al contrario di molti interpreti contemporanei di R&B, i testi delle sue canzoni non sono mai espliciti e l’erotismo è espresso tutto dalla cruda emotività della sua voce.

Teddy è anche capace di offrire il suo timbro a brani d’impareggiabile audacia ritmica, come “Only you”, estratto dal suo album forse più bello “Life is a song worth singing” del 1978.

Tipicamente nello stile afro-americano – quella sfacciata rivalsa che nasce dalla povertà più estrema con padre che abbandona la famiglia e condizioni di vita miserrime – nel 1982 Teddy è all’apice della carriera e la sua vita un tripudio di guardie del corpo, frenetici amori e lusso sfrenato.

Proprio in quell’anno però, i freni della sua Rolls Royce lo tradiscono e finisce contro un albero rimanendo paralizzato dalla vita in giù. Ma il coraggioso artista dopo un anno di terapie riabilitative torna subito a fare musica e nel 1983 la sua etichetta stampa un album con registrazioni fatte prima dell’incidente dall’emblematico titolo: “Heaven only knows”. Nonostante il grave handicap fisico la sua voce non sembra aver perso lo smalto dei giorni migliori e nel 1984 torna in studio per registrare altro materiale. Esce quindi “Love Language” che contiene un duetto con l’allora sconosciuta Whitney Houston. Partecipa al Live Aid tenutosi a Philadelphia nel 1985. Nel 1988 il suo album “Joy” riceve un’altra nomination ai Grammies, mentre il cantante fonda anche un’associazione senza scopo di lucro per raccogliere fondi a vantaggio dei disabili.

La sua carriera si chiude nel 2007 quando annuncia il ritiro dalle scene. I vecchi brani di Herold Melvin & the Blue Notes intanto assurgono al ruolo di autentici classici della Black Music.  “Wake up everybody”, con le sue liriche di grande impegno sociale, è uno degli anthem ancora adesso più ascoltati in ogni parte del globo. Un cancro lo sconfigge definitivamente il 10 Gennaio. Come ha detto Kenneth Gamble della Philadelphia Records, la cosa più bella che ci si può ricordare di Teddy Pendergrass è il fatto che dopo l’incidente non solo non ha perso la speranza e non è sprofondato nella disperazione e nella rabbia, ma è stato un simbolo vitale e positivo e un aiuto concreto per chi si è trovato nelle sue stesse condizioni.

UNA NAZIONE SOTTO LO STESSO GROOVE

La rivoluzione di George Clinton

“Con un piccolo sforzo George Clinton potrebbe rappresentare un buon esempio per la sua razza” si legge così sotto la didascalia di una delle bizzarre copertine di uno degli innumerevoli vinili dei Funkadelic. George Clinton che, come potete osservare dalle foto, in realtà è conciato come una specie di stregone in acido, nel disegno è raffigurato lisciato a pelo e imburrato in capelli lisci e sguardo penetrante serioso. “Una nazione sotto lo stesso Groove” è una specie di circo afro-americano che se da un lato produce la più portentosa e furibonda miscela di Funk, Soul, Rock psichedelico, Blues e Jazz mai mescolata da mente umana, dall’altro, sotto la geniale guida di Clinton, appare come un’irresistibile iconografia dell’arte negra tout-court, che fra il serio e il faceto, contiene tutti gli elementi per comprendere davvero cosa è il Funk. Apparentemente infatti, tutto ebbe inizio con il Funk (In principio era il Funk) ma forze oscure privarono in seguito l’universo della sua nutrice primigenia. Ecco allora la saga funktascientifica con la Mothership (la nave madre) che atterra sul palco per riportare il Funk alle genti. I concerti di Parliament/Funkadelic sono veri e propri musical con personaggi che interpretano ruoli precisi come Doctor Funkenstein e il suo clone, le spose di Doctor Funkenstein, Uncle Jam, Sir Nose e tanti altri stravaganti personaggi partoriti dall’inesauribile fantasia di George Clinton, fantasia che probabilmente ha attinto anche dall’uso di certe sostanze psicotrope. Ma dietro le buffe metafore clintoniane si celano anche messaggi ben precisi per la comunità afro-americana e non solo. Quell’”Una nazione sotto lo stesso groove” è infatti un unico corpo di musicisti, danzatori e pubblico in cui l’evento concerto si svolge nello stravolgere la dinamica dell’artista sul palco e del pubblico nel parterre. Questa è una nazione e il suono lo si produce tutti insieme, come in un rito battista, mani che battono e piedi (spesso sanguinanti dal troppo ballare) che si muovono sulla pista da ballo. Sono essi stessi lo spettacolo e la musica. La questione dell’Uno (una nazione) riguarda anche la stessa configurazione metrica del Funk, che pone l’accento sempre sul primo movimento della battuta. Il fatto che molta della musica nera precedente come Blues e Gospel fosse una musica costruita ritmicamente sul levare e che il Funk avesse spostato appunto l’accento da quello debole del levare a quello forte del battere, aveva anche e soprattutto il significato di dare enfasi alla forza e alla bellezza di un popolo, in quegli anni ’70 dove Malcom X aveva fatto finalmente capire ai neri che la loro razza era bella, che “Black is beautiful”. Affermare un’identità, gioiosa, nel movimento della danza, non violenta e non “contro” qualcosa ma per l’unità (neri-bianchi-donne-uomini) è appunto l’essenza del Funk, così come è stato concepito e rappresentato da questi grandi musicisti che tuttora portano nel mondo il loro circo riempiendo il palco spesso con non meno di 35 musicisti ogni volta.

Cosa è lo Stank Funk? Funky Soul e Rare Grooves

per feticisti della musica nera.


Stank FUNK: amate i cadaveri in decomposizione, i  vermi e la  spazzatura che marcisce, tenete maleodoranti scarpe da ginnastica di atleti sul viale del tramonto sul vostro comodino?

Yum, Yum, Yum. Ho trovato qualcosa per voi! Assicuratevi che le vostre anime siano nel posto giusto e nel momento giusto perché qui c’è il compendio di tutto quello che avete sempre amato.
Un po ‘di tempo fa ho sentito in giro questa roba che viene definita “Stank-Funk” su un quadruplo CD intitolato Funky Soul and Rare Grooves compilato da quella brava gente che sta laggiù nell’improbabile città americana di Rhino. Qui ho trovato la musica che posso dire abbia formato la mia vita. Da giovane musicista ho avuto molte influenze provenienti dalla fine degli anni Sessanta fino alla metà degli anni Settanta.

.Questa raccolta rappresenta un efficace sintesi di quel genere di musica che loro – i neri – chiamiamo Funk, dalla nascita ai suoi sviluppi, un efficace metodo per catapultarvi nella musica dell’odore. Brevemente dirò che dopo il Gospel, il Blues e il Jazz (Swing, Bop, ecc) è arrivato l’R & B, non quello di adesso, quello vero. Anni ’40. Voi tutti sapete di cosa sto parlando, no?

Quella musica è stata la base per quasi tutta la musica popolare di oggi. Che sia Pop,
Soul, Funk, Fusion  o Rock non potrebbe esistere se non ci fosse stato l’R&B prima..  Gente come Ray Charles, Louis Jordan, Richard Penniman, Ruth Brown, Ike Turner, Etta James e Bo Diddley erano alcuni degli originali creatori ed interpreti di questa musica. Partendo di qui, questa raccolta segna l’evoluzione appunto di questo suono che porterà alla nascita del Funk..
Qui, a scanso di equivoci, non si trovano i classici, l’ho detto è per feticisti. Non ci sono James Brown, Otis Redding, Kool and the Gang, Joe Tex o P-Funk su questa cosa. Tuttavia ogni musicista che abbia mai avuto a che fare il la sopra menzionato R&B è qui rappresentato. Si passa dritti dall’R&B al Funk, attraverso il Soul. E non fate domande.

Qui squilla Funk tanto tortuoso da suonare come musica di sottofondo quasi senza senso,  come in un film porno degli anni settanta e ottanta. Ah già, voi non guardate porno?? Vi siete persi molta buona musica! Qui  c’è dentro quella che io chiamo musica della Festa del Papà. Qui dentro ci sono tradizioni africane americane che dipingono perfettamente gli uomini di colore (al contrario di tanti luoghi comuni cinematografici). Così per il Giorno del Papà ci deve essere sempre buon cibo. Entrambe le varietà di pancetta grassa fritte in qualunque olio, l’aroma dell’aglio, peperoni verdi e barbecue di carni speziate, devono transitare nelle vostre narici sedotte a attorno alla griglia. Aggiungete un liquore possibilmente marrone (anzi deve essere marrone), le sigarette,  i sigari,  il pinnacolo o il domino, l’essenzialità di un Hammond B3 e bene avrete  un’idea di quello di cui sto parlando.